“Macchinìsta, macchinista del vapore
metti l’olio nei stantufi,
di risaia siamo stufi…”

È un passo della nota canzone di protesta Saluteremo il signor padrone. Protesta  messa in atto dalle mondine stanche da un lavoro massacrante, schiave di un sistema pari al peggior caporalato, sotto il sole cocente e immerse negli acquitrini delle risaie tra zanzare e sanguisughe, cantano la loro rabbia al padrone della risiera. Una visione iconografica stupendamente ridisegnata  da una giovanissima Silvana Mangano nel film capolavoro del neorealismo di Giuseppe de Santis: Riso amaro. Quindi il nobile cerale preso a pretesto di lotte e rivendicazioni, ma sarà Gualtiero Marchesi, il celebre chef milanese, a nobilitare il nostro cereale, creando il suo risotto alla milanese arricchito da un foglietto di oro, forse con l’intenzione più rivolta alla sua composizione piuttosto che al puro cereale.
Appunto è il riso,  che è  entrato a far parte della nostra alimentazione e della nostra cultura ma in tempi più recenti rispetto alla sua diffusione in oriente. È il cereale che sfama la parte dell’umanità più numerosa, verrebbe da dire: dove non c’è il grano c’è il riso; se in occidente c’è il grano in oriente c’è il riso. Prima della patata, prima del mais, il riso è la derrata agraria che, a pari superficie coltivata, si è dimostrata capace di alimentare il maggior numero di persone, oltre che l’unica adatta a vivere in terreni paludosi. C’è da sempre, dato che si trovava spontaneo sulle pendici dell’Himalaya circa 15 mila anni fa. La storia del riso è lunga quanto il mondo. Il percorso che lo ha portato in Italia è stato favorito dagli scambi culturali  e commerciali che l’occidente ha sostenuto con le civiltà orientali  ma anche  dagli scontri scoppiati nelle guerre. Dal Catai alla Persia, attraverso il mondo ellenico e arabo fino ai giorni nostri. Lo storico latino Plinio scrive che il cereale è conosciuto dagli Italici. Lo scrittore latino Orazio e il medico greco Dioscoride ricordano che nel mondo romano questo costoso prodotto, veniva usato a scopi medicamentosi, per risolvere  i problemi intestinali come la dissenteria, le intossicazioni o come prodotto di bellezza della pelle.
Il riso arrivò definitivamente in Europa all’inizio del VIII secolo attraverso la Spagna, con l’inv asione degli arabi, che successivamente lo introdussero in Sicilia, dove fu presto apprezzato per le sue qualità alimentari.

Durante quasi tutto il Medioevo questo cereale venne  considerato nel centro-nord della penisola  come una delle molte spezie che giungevano dall’Oriente con le navi arabe, genovesi e veneziane. Erano gli speziali a vendere il riso, assieme a droghe o prodotti esotici d’importazione, e il “Liber de coquina” lo consigliava sfarinato nel biancomangiare sopratutto allo scopo di rendere densa la vivanda.. Il biancomangiare non era una ricetta specifica, ma una preparazione  basata sulle presunte qualità salutari  del colore bianco, simbolo di purezza e ascetismo. Un  cibo destinato alle classi nobiliari che prese il nome dal colore degli ingredienti  prevalenti nella sua elaborazione, come petto di pollo, latte, mandorle, riso, zucchero, lardo, zenzero bianco, ecc. Ancora oggi mangiare in bianco è sinonimo di un’alimentazione poco condita e senza spezie che intende riportare alla salute gastrica o intestinale. Ho dovuto sopportare tanti risi in bianco che mia mamma mi faceva ingurgitare dopo gli imbarazzi di stomaco. In occasione della mia professione di farmacista conobbi una simpaticissima signora il cui medico le suggerì di mangiare riso in bianco ogni giornoal posto della pasta, ma senza indicarle le dosi. La signora in questione, di buona stazza  corporea, prese alla lettera il consiglio del medico eliminando pasta, spezie e condimenti di vario genere ma diede sfogo ai suoi istinti in modo del tutto arbitrario.  Il primo piatto  in bianco era costituito da 150 grammi di riso condito con solo ( a suo dire ) mezzo panetto di burro e ricoperto di parmigiano grattugiato: l’apoteosi della dieta in bianco! Essendo stato trasferito ad altra sede, non conobbi il seguito della storiella.

L’attestato più antico a prova della coltivazione del riso in Italia è a Firenze ed è datato 1468. Sotto la signoria dei Medici, un signore di nome Leonardo Colto dei Colti, fa domanda per la coltivazione del riso e il tono usato fa presupporre che la coltivazione del cereale sia già conosciuta. Tuttavia, gli storici propendono per un’origine “milanese”. Alla fine XV secolo la coltivazione risicola si diffuse  al nord Italia, ed esattamente in Lombardia e Piemonte, nell’area dell’attuale vercellese, dove le prime risaie (definite mare a quadretti), furono impiantate ad opera di Ludovico il Moro e di suo fratello Galeazzo Sforza, che pensarono di sfruttare le frequenti inondazioni del Po per questa coltura. Nel basso milanese avevano attuato importanti piani di  bonifiche delle paludi e avviato politiche agricole su questo cereale; da quel momento non è più considerato una spezia esotica ma una voce importante della produzione agroalimentare interna. Una vera manna ottenuta addirittura da terreni paludosi!
Nel Cinquecento il riso entrò al pari del mais, importato di recente dalle Americhe, nella schiera dei nuovi alimenti con i quali placare la fame contadina. E da questa immagine di cibo povero che il riso non trovò particolare attenzione nei ricettari delle corti cinquecentesche.

Durante il XVII secolo la coltivazione del riso conobbe un’involuzione sopratutto a causa di polemiche sull’igiene ambientale. I medici accusavano questo cereale di portare la malaria (la cui vera colpevole era la zanzara che infestava le paludi), cosicché i coltivatori venivano obbligati a tenere le risaie a sei miglia dai centri abitati, pena multa e galera. Il riso tornò poi di nuovo in auge nel Settecento, conquistando per la prima volta nuove aree di coltivazione, come risposta alle gravi difficoltà alimentari popolari.

Durante l’Ottocento il Governo Piemontese e il conte di Cavour promossero studi per impiantare  sul territorio vercellese una rete di canali, tanto che verso gli ultimi decenni di quel secolo ne venne aperto anche uno intestato allo statista.