Il cibo

Sfatiamo il mito che vuole il Medioevo essere un periodo buio della nostra storia. Certo è meno conosciuto rispetto ai secoli successivi o paradossalmente al periodo di Roma, ma non per questo lo dobbiamo considerare privo di connotazioni vitali. L’anno mille ha fatto da spartiacque tra un lungo periodo di stasi mentale iniziato con la caduta dell’Impero Romano nel 476 e un risveglio culturale generalizzato del dopo millennio. La nascita dei Comuni coincide col risveglio delle lettere, delle arti in genere ma anche dell’artigianato nelle botteghe. Firenze diventa la città più importante d’Italia, dove fioriscono commerci tanto da consentire al Comune di battere il fiorino come propria moneta nel 1252 e farne la valuta di riferimento internazionale per gli scambi commerciali.

Nel 1285 presso la corte Angioina di Napoli è d’uso il testo del più antico ricettario di cucina dell’occidente cristiano che ci è giunto fino ai nostri giorni. I manoscritti del Liber de coquina, redatto in latino volgare da un anonimo autore, è una delle più importanti testimonianze sulle abitudini alimentari presso le corti italiane ed europee del tardo Medioevo. Contemporaneo a Dante verrà accompagnato in seguito nel Trecento da altri testi di cucina.

Nel comprendere quali prodotti primari si potessero contare, non dobbiamo dimenticare la mancanza tutti quelli arrivati dal nuovo mondo due dopo, a cominciare dal tacchino fino ad una serie di piante o di frutti di cui non sapremmo farne a meno, e per citare i più frequenti nell’uso, si va dal pomodoro alla patata, dai peperoni alle zucchine e i voluttuari cacao e tabacco.

A quei tempi sia i poveri che i ricchi erano sobri a tavola che venivano imbandite solo in occasione di feste pubbliche o private. I piatti venivano insaporiti con grandi quantità di sale.  Tra le carissime spezie provenienti dall’oriente era importante lo zafferano per il colore oro, importato e non ancora coltivato in Italia.  Esse erano considerate come forme di pagamento e conferivano alle tavole più nobili colori e sapori serviti in porcellane, argento e vetri. Le tavole più povere erano meno colorate e servite in stoviglie fatte più modestamente in coccio e in legno.
Erano due i pasti che scandivano la giornata, epidemie e carestie permettendo:  il desinare consumato nella mattinata a l’Hora terza, alle nove e il cenare al Vespro, al calar del sole. Solo sulle tavole signorili compariva la merenda a metà della giornata.

La morale cristiana del tempo rigidamente definita da Tommaso d’Aquino condannava gli eccessi di gola, il cibo doveva esser assunto in ragione di soddisfare la fame e non oltre, per cui  la sobrietà era il dettato della quotidianità. Dante da buon cristiano osserva le regole della dottrina e pone il vizio della gola nel terzo girone infernale. Qui vi trova il concittadino Ciacco, un ghiottone conosciuto come immancabile ad ogni banchetto  sia come invitato, sia come portoghese qualora non fosse stato invitato. La sua fama viene tramandata anche dal Boccaccio nel Decameron che gli abbina il compare Biondello. Entrambi, sfruttando il comune vizietto della ghiottoneria, si burlano a vicenda in quella Firenze un po’ reale e un po’ immaginaria, dove l’uso per la burla sembra essere un elemento importantissimo.

Ciacco viene chiamato così dai Fiorentini come soprannome dall’accezione un po’ spregiativa che corrisponde al porco e sta ad indicare proprio le sue voglie di cibo. Alcuni golosi vengono graziati e posti in Purgatorio come Marchese degli Argogliosi, un beone forlivese che da vivo bevve in modo smodato   (Pur. XXIV, 31 – 33). Anche tra il clero era pratica diffusa la gola e Dante ci riporta del papa Martino IV goloso di anguille marinate nel vino e cotte alla brace: “che purga per digiuno l’anguille di Bolsena e la vernaccia” (Pur. XXIV, 23 – 24).

A parte gli eccessi, l’alimentazione degli altolocati era in prevalenza di tipo vegetariano con l’aggiunta delle carni di manzo, agnello e pecora bollite o arrosto il giovedì e la domenica; il venerdì e durante la quaresima si mangiava di magro e si consumava del tonno affumicato con legumi. Il cibo servito veniva mangiato con le mani o meglio con la punta delle dita (così come prescrivono le buone maniere a tavola), con la punta del coltello o con il cucchiaio. La forchetta arriverà e nel medioevo era più che lecito fare la scarpetta. Il nobile guerriero deve mangiare carne per diventare forte e coraggioso. Dante era un seguace di Pitagora e, considerando il suo rigore nel rispetto delle dottrine, non è impensabile sostenere  che avesse un’alimentazione vegetariana. In linea di massima il pasto dell’uomo medievale era principalmente costituito da una zuppa di legumi con o senza pasta. Il cibo veniva sempre accompagnato da una grande quantità di pane che diventava la base dell’alimentazione. Gli altri cibi lo accompagnavano e costituivano il companatico, derivato dal latino medievale “companaticum”: quello che si mangia insieme col pane.

Per Dante il pane è la base dell’alimentazione come si legge due volte nell’episodio del conte Ugolino. In primis il conte sta divorando la testa del suo nemico cardinale Ruggieri: “e come ‘l pan per

 fame si manduca…” (Inf. XXXII,127).

Ancora il conte imprigionato con gli incolpevoli figli e i nipoti che subiranno la tragica morte per fame; tra il dormiveglia e il sonno aveva sentito piangere i figli che chiedevano del pane: “pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli ch’eran con meco, e dimandar del pane” (Pur. XXXIII,  38 – 39).

Oppure più spiritualmente fa assumere al pane la forma metaforica d’un cibo angelico che rappresenta la sapienza in genere e teologica nel caso di un cristiano di cui pochi si cibano:

Voialtri pochi che drizzaste il collo per tempo al pan de li angeli…” (Par. II, 10 – 11).