In inverno, nelle campagne toscane, c’è un ortaggio che domina i campi con la sua eleganza discreta: il cavolo nero. Le sue lunghe foglie lanceolate, di un verde scurissimo quasi bluastro, resistono al freddo e regalano sapori profondi e terrosi. Per secoli è stato il protagonista silenzioso della cucina contadina toscana, ingrediente umile ma insostituibile di zuppe, ribollite e piatti della memoria.
Un ortaggio antico e resistente
Il cavolo nero (Brassica oleracea var. palmifolia), detto anche “cavolo a penna” per la forma delle foglie, è una varietà tipica della Toscana centrale. Si semina in estate e si raccoglie nei mesi freddi, quando la pianta raggiunge la piena espressione aromatica. Il gelo, infatti, ne addolcisce il gusto, smorzando le note amare e rendendo le foglie più tenere. Non a caso, nei racconti contadini, la prima gelata segnava l’inizio della sua vera stagione. Coltivato già in epoca medievale, il cavolo nero era un alimento prezioso per le famiglie rurali: cresceva senza troppi bisogni, resisteva alle intemperie e garantiva raccolti continui per settimane. Non è un caso che nel “Trattato dell’Agricoltura” di Pietro de’ Crescenzi (XIV secolo) si esalti “la virtù del cavolo che resiste al freddo più d’ogni altra erba e nutrisce il corpo nei giorni più rigidi”.
La ribollita: regina dell’inverno
Quando si parla di cavolo nero, la mente corre subito a una delle zuppe più celebri della tradizione toscana: la ribollita. Questo piatto, oggi servito nei ristoranti come simbolo della cucina regionale, nasce come zuppa “di recupero” nelle case contadine. Si preparava il venerdì, senza carne, con pane raffermo, fagioli cannellini, carote, cipolle, sedano e naturalmente cavolo nero. Il giorno dopo, la zuppa veniva “ribollita” sul fuoco, spesso più di una volta, diventando sempre più densa e saporita. Il cavolo nero, cuocendo a lungo, rilasciava il suo aroma deciso e contribuiva a creare quella consistenza cremosa che distingue la vera ribollita dalle semplici minestre di verdure.
La ricetta varia leggermente da zona a zona — nel fiorentino è più rustica, nel senese più fine — ma un elemento è costante: senza cavolo nero, non è ribollita. Lo sosteneva anche Pellegrino Artusi che tante volte abbiamo ricordato, il quale, nel suo citatissimo manuale “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” scriveva: “La buona ribollita vuole cavolo nero e pane sciocco, ché con questi due ingredienti il resto vien da sé”.
Piatto povero, sapore ricco
Il valore del cavolo nero nella tradizione toscana sta anche nel suo ruolo sociale: era il “verde” per eccellenza delle mense popolari. In molte famiglie contadine, la carne era un lusso raro; zuppe e minestre costituivano la base quotidiana. Il cavolo nero, grazie alla sua disponibilità nei mesi più duri, era una risorsa nutriente e versatile. Oltre alla ribollita, veniva utilizzato in moltissimi modi: lessato e condito con olio nuovo e sale, saltato in padella con aglio e peperoncino, aggiunto alle polente o alla farinata di cavolo, altra specialità invernale della Toscana rurale. Si cucinava insieme ai legumi, che ne completavano il profilo proteico, creando piatti completi e sazianti.
Farinata di cavolo nero: comfort food contadino
Meno nota della ribollita ma amatissima nelle campagne è la farinata di cavolo nero, da non confondere con quella ligure a base di ceci. Si tratta di una minestra densa preparata con farina di mais o farina gialla, brodo vegetale e foglie di cavolo nero tagliuzzate finemente. Cuocendo lentamente, la farina si lega con le verdure e forma una consistenza vellutata, ideale nelle giornate fredde. Veniva servita in ciotole di coccio e spesso consumata il giorno dopo, quando diventava ancora più compatta. Alcuni contadini la tagliavano a fette e la riscaldavano su lastre di ghisa o nel camino, creando una sorta di “polenta rinforzata” dal sapore intenso.
Il cavolo nero nella cucina moderna
Negli ultimi anni, il cavolo nero è tornato protagonista anche sulle tavole dei ristoranti e nelle cucine domestiche più attente alla stagionalità. La sua versatilità lo rende adatto a ricette contemporanee: chips croccanti al forno, pesti aromatici, risotti e paste fresche ripiene. Tuttavia, la sua identità resta profondamente legata alla cucina povera, dove è nato e cresciuto. Molti chef toscani contemporanei recuperano le ricette contadine con rispetto, aggiornandole solo leggermente. “Il cavolo nero non ha bisogno di essere trasformato troppo: va ascoltato”, ha dichiarato lo chef Marco Stabile, tra i principali interpreti della tradizione toscana moderna. Oggi quest’ortaggio è diffuso in tutta Italia e all’estero ma non ha cancellato il legame con la terra d’origine. Nei mercati toscani, ancora oggi, le bancarelle lo espongono con orgoglio da novembre a febbraio, spesso legato a mazzetti, pronto per la ribollita di famiglia.
L’immagine di copertina è stata creata da un programma di intellligenza artificiale.

Flavio Semprini è un giornalista professionista free-lance. Scrive di sport, enogastronomia, edilizia e turismo e si occupa di uffici stampa e comunicazione per aziende, associazioni ed enti sia pubblici che privati. Ha scritto diversi libri, alcuni sulla cucina romagnola, utilizzando per questi ultimi il doppio pseudonimo di Luigi Gorzelli/Paolo Castini.
