Con questo pezzo apriamo una serie di articoli dedicati a importanti personaggi che, oltre alla loro professione, amavano tanto l’enogastronomia da diventare dei punti di riferimento per l’arte culinaria italiana. Abbiamo scelto di iniziare questo florilegio da Ugo Tognazzi, uno dei grandi interpreti del cinema e della televisione italiana, scomparso il 27 ottobre del 1990. Un uomo che ha amato follemente la cucina, tant’è che se il grande Vittorio Gassman era definito “il mattatore”,  potremmo tranquillamente definire Tognazzi “ilcuoco/attore”. Gli farebbe di certo piacere.

Tognazzi cuoco “sperimentatore”

La cucina di Tognazzi era piuttosto “creativa” e sempre “sperimentale” quindi, a volte, le cose non gli riuscivano proprio bene. Maria Sole, una dei suoi figli, ricordò una volta la “balena alla pizzaiola” e la definì: “Una roba terribile”. La commediografa Iaia Fiastri parlò del suo “maial tonnè” come di una cosa “spaventosa”. Paolo Villaggio, in un’intervista televisiva, ricordò alcune cene a casa Tognazzi con Mario Monicelli, Luciano Salce, Leo Benvenuti e altri ospiti, durante le quali si fingeva stupore ma, in realtà, si temeva l’estro troppo creativo del grande attore cremonese. Del resto, le sue ricette erano sorprendenti fin dai nomi: il babù al kiwi; le farfalle fuxia con le barbabietole cotte; le orecchiette al pomo mascarpone; la bavarese di fragole; il carpaccio “a modo suo” con l’olio di nocciole; l’aceto di lamponi; la pasta di tartufo.

Tognazzi e i suoi libri

Forse non tutto veniva come doveva venire ma che Tognazzi sia stato un cuoco di tutto rispetto è testimoniato

La copertina de “L’Abbuffone”.

dal fatto che sono ben due gli Istituti professionali alberghieri e lui dedicati: gli Ugo Tognazzi di Pollena Trocchia in provincia di Napoli e quello di Velletri, città dove risiedeva e nel cui cimitero riposa. E poi di Tognazzi ci restano anche tre libri di ricette: “L’abbuffone. Storie da ridere e ricette da morire” pubblicato da Rizzoli nel 1974; “Il rigettario. Fatti misfatti e menù disegnati al pennarello”, uscito per i tipi di Fabbri Editore nel 1978 e “Afrodite in cucina” con illustrazioni di Guido Crepax, stampato nel gennaio del 1984 da Sugarco.

Tognazzi e il suo frigorifero

Per capire l’amore per la cucina di Tognazzi bisognava andare a casa sua a Velletri. Lì si trovava un enorme frigorifero (si narra occupasse una parete), rivestito di legno all’esterno. Da quattro finestrelle si poteva vedere l’interno di questa “grotta” per vedere quarti di manzo appesi, tantissime varietà di formaggi, insaccati a gogò e chi più ne ha più ne metta. Per Tognazzi era una sorta di “tempio religioso/culinario” dal quale traeva l’ispirazione per i suoi piatti.

Tognazzi cuoco appassionato

Una foto del 1967: Tognazzi prepara la pasta.

Indubbiamente si considerava un cuoco appassionato. Scrisse di suo pugno: “Ho la cucina nel sangue. Il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro. Io ho il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite. Per me la cucina è la stanza più shocking della casa. Nessuno più di me capì l’ermetismo di Quasimodo: per una oliva pallida io posso realmente delirare. Conosco le entrate di servizio e i cuochi dei migliori ristoranti d’Europa. L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere. E mi sento vivo davanti a un tegame. L’olio che soffrigge è una musica per le mie orecchie. Il profumo di un buon ragù l’adopererei anche come dopo barba. Un piatto di fettuccine intrecciate o una oblunga forma d’arrosto, per me sono sculture vitali, degne d’un Moore”. (Henry Spencer Moore è stato un famoso scultore inglese molto noto negli anni ’70).

Tognazzi: la cucina come un palcoscenico

Dunque, il suo obiettivo in cucina era stupire ma, soprattutto avere l’approvazione dei commensali (per questo Villaggio ricordava come tutti lo lodassero anche quando non ne azzeccava una…). In quest’atteggiamento, c’è molto del mestiere d’attore per il quale si mira a stupire il pubblico con la propria performance e se ne vuole l’applauso. Ma, in cucina, Tognazzi non aveva bisogno di un regista, di uno sceneggiatore o di uno scenografo: era lui che dirigeva, che scriveva il menu, che impiattava. E, siccome le ricette spesso e volentieri erano sue creazioni ne derivava una certa apprensione. “E se quello che cucino non piace?” – si chiedeva spesso.

Tognazzi e la tradizione gastronomica

In effetti, scrisse a suo tempo: “La mia è una cucina d’arte. La soffro come pochi. Ed è per questo che dò un’importanza fondamentale anche alla scenografia che l’accompagna, all’atmosfera che la circonda, a tutto quel flusso di sensazioni piacevoli che ti provengono dalla memoria o dall’ambiente, e che investono prepotentemente il piatto che hai davanti, arricchendolo di antichi e nuovissimi significati. Come a Proust ogni oggetto sussurrava ricordi lontani e sepolti, così a me ogni cibo rammenta tempi perduti o ritrovati. E la gallina bollita, per esempio, mi fa riandare alla nonna, alle domeniche di Cremona, alla mostarda; e i lamponi freschi mi ricordano lontane e rare villeggiature in montagna coi miei genitori”. Alla fine, scopriamo che anche la sua cucina così “sperimentale” aveva basi nella tradizione padana e cremonese in particolare, un retaggio culturale al quale, crediamo, nessun cuoco italiano possa completamente sfuggire.