Qualche settimana fa abbiamo scritto dei Mocheni, una delle antiche minoranze culturali e linguistiche presenti nel nostro Paese. Gruppi etnici in grado non solo di dare vita a usi e costumi particolari ma anche di creare cibi e cucine “diverse”, capaci di preservarsi nel tempo. Oggi scriviamo dei Walser, una piccola comunità che, a partire dal XII secolo, è emigrata dal Vallese svizzero nei territori circostanti in Italia, nella stessa Svizzera, in Austria, Francia e Liechtenstein. Nel nostro Paese la comunità Walser conta oggi circa 3400 persone distribuite fra Piemonte (Valsesia e Ossola) e Valle d’Aosta (nella valle del Lys). Territori dai dialetti francofoni dove la lingua walser, che è un antico dialetto alemanno dell’attuale Germania del Sud, suonava e suona anche oggi in maniera davvero particolare.

Una ragazza walser indossa un abito tradizionale (immagine tratta da youtube). In copertina, una cantina di stagionatura del Bettelmatt (Di Gian66ca – Opera propria, Pubblico dominio, httpsit.wikipedia.orgwindex.phpcurid=5183624).

Perché secoli fa numerosi Walser (parola che è una contrazione del tedesco valliser cioè abitante del Canton Vallese) siano emigrati dalla loro regione d’origine, è argomento di dibattito fra gli studiosi. Probabilmente si tratta di un mix di motivi: sovrappopolazione delle terre dell’Alto Vallese, che spinse i coloni Walser alla ricerca di nuovi pascoli per il loro bestiame e di terre incolte da sfruttare; condizioni climatiche particolarmente favorevoli che resero possibile la sopravvivenza anche a quote elevate. I ghiacciai si erano ritirati e molti valichi alpini erano percorribili per gran parte dell’anno; incentivi offerti da parte dei signori territoriali (nelle zone piemontese e valdostana soprattutto i conti di Biandrate e alcune grandi istituzioni monastiche) che favorirono la creazione di nuovi insediamenti con la promessa di libertà personali e di un favorevole trattamento fiscale.

Sia come sia, i Walser hanno portato frammenti della loro cultura nei territori del nostro Paese dove si sono insediati. Gli edifici e i centri abitati delle comunità walser, ad esempio, hanno caratteristiche che li distinguono da quelli delle comunità confinanti, tanto che sono diventati oggetto di turismo e documentazione storica. Per questo motivo si parla di architettura walser, indicando le strutture in legno e in pietra locale costruite nei secoli scorsi, visibili ancora oggi nelle frazioni alpine.

Per quel che riguarda più strettamente questo blog, dobbiamo parlare di cibo e cucina e non si può non partire dal formaggio bettelmatt ancora oggi prodotto esclusivamente in alcuni alpeggi estivi dell’Ossola superiore. Il nome bettelmatt deriva da battel che significa questua, quindi era senz’altro utilizzato per forme di beneficenza. In unione a matt, che in tedesco significa pascolo, rende chiaro il significato del nome: formaggio proveniente dal pascolo della questua. Il bettelmatt è un formaggio a pasta semi cotta e si ottiene dalla lavorazione di latte vaccino intero crudo, prodotto da bovine di razza bruna italiana, nutrite al pascolo. La stagionatura minima è di due mesi. Quello originale presenta il marchio a fuoco, sullo “scalzo” la data di fabbricazione e il nome dell’alpeggio di produzione, accompagnati dal numero di bollo CEE del caseificio. L’aroma particolare di questo formaggio è strettamente legato al mix di erbe e fiori, tra cui l’erba mutellina, presente nelle zone di alta montagna dove il bestiame viene portato al pascolo e dove il formaggio è prodotto.

Altro formaggio walser è il maccagno la cui particolarità era ed è tuttora di venire lavorato ancora

Una tipica casa Walser nei dintorni di Gressoney .

caldo di mungitura risparmiando così sulla legna da ardere che, in tempi antichi, era un bene prezioso in alta montagna. E il formaggio è presente anche nei riti funerari. La tradizione vuole che, dopo la funzione, ci si ritrovi a casa del morto per mangiare pane e formaggio a spicchi. Una toma che, secondo i racconti, veniva conservata fin dal giorno della nascita del defunto. Durante questo rito, si apriva una finestrella posta su una delle pareti in legno o sul tetto della casa, la finestra dell’anima, per dar modo allo spirito di raggiungere i ghiacciai e purificarsi dai peccati.

La cultura culinaria walser non si limita al formaggio. Un piatto ora conosciuto in tutta la Valle d’Aosta è la seupa a la vapelenentse (zuppa alla valpellicese), una sorta di timballo che alterna strati di fontina e di pane bagnati in un brodo di verza, verdure e aromi vari. Ci sono i chnefflene, gnocchetti messi a finire la cottura in padella con della cipolla e conditi con fonduta e speck. La soupa de la ghigia, cioè pane nero tostato in padella con il burro e poi bagnato nel vino e spolverato di zucchero. Tradizionalmente era il cibo ricostituente per le donne dopo aver partorito. L’ava cocia (l’acqua cotta) è, invece una minestra che ha come base un soffritto di porri e burro arricchito con formaggio toma e fette di pane. Pare fosse utile a smaltire i postumi di una sbornia. Come si può facilmente capire, si tratta di una cucina molto calorica, in grado di far sopportare i duri inverni ad alta quota a chi lavorava all’aperto. Ciò non toglie che non sia piacevole gustarla anche al giorno d’oggi. Magari quando c’è la neve…