Uno dei grandi maestri (forse il più grande fra i viventi) della cucina italiana è Igles Corelli. Nato ad Argenta nel 1955, nella sua città ha esordito come chef nel suo primo locale, il Trigabolo, che è diventato una leggenda della ristorazione italiana. Bisogna partire da qui per comprendere alcune dichiarazioni che questo talento della ristorazione ha rilasciato alla stampa non più di due mesi fa e che hanno fatto molto rumore. Corelli ha sostanzialmente detto che l’amore eccessivo per le verdure e la scarsa propensione a cucinare la selvaggina dei grandi chef stellati contemporanei sono dovuti più al voler compiacere le mode, le varie guide gastronomiche e le grandi multinazionali del cibo, piuttosto che a una vera esigenza creativa.

Il Trigabolo, una leggenda

Qui e in copertina, Igles Corelli al Mart Cooking 2013. Foto di FPRO – Jacopo Salvi.

Corelli, dunque, viene dal Trigabolo. Cos’era questo ristorante la cui importanza possiamo paragonare a quella del San Domenico di Imola al giorno d’oggi? Nel 1979 un rappresentante di giocattoli, Giacinto Rossetti con il socio Gualtiero Musacchi rileva una pizzeria in piazza Garibaldi 4b ad Argenta, in provincia di Ferrara. Per guidare la brigata di cucina pensa al 24enne Igles Corelli che fino a quel momento aveva lavorato sulle navi da crociera. Corelli costruisce la sua squadra chiamando un certo Bruno Barbieri, oggi famosissimo in Tv per diverse trasmissioni legate alla cucina e all’ospitalità che allora aveva appena diciassette anni. Per preparare i dolci chiama un altro giovanissimo appena uscito dalle scuole professionali: Mauro Gualandi (che poi sarà gambero rosso per la pasticceria salata nel 2019, niente a che vedere con Renato Gualandi, inventore della carbonara). Il maitre è Bruno Biolcati.

Le incredibili ricette del Trigabolo

Questo gruppo di ragazzini, che saranno chiamati “i Beatles della ristorazione italiana” rivoluzionerà la cucina nazionale affidandosi al territorio: prodotti dell’orto sotto casa, erbe aromatiche, polli e conigli del cortile ma, soprattutto, cacciagione:

Un fagiano. Al Trigabolo era servita la suprema di fagiano alla crema e prezzemolo fritto. Foto di Dave Menke da pixnio.com.

folaghe, germani, anatre, fagiani, piccioni, moriglioni, fischioni… Nascono così piatti destinati a rimanere nella storia della cucina italiana: la suprema di fagiano alla crema e prezzemolo fritto; il piccione al forno al cacao e broccoletti; il ventaglio di fischione in salsa di funghi e tartufi; il germano ripieno al pesce gatto in salsa di caffè e mandarino; il germano reale al fegato grasso e coriandolo; la scaloppa di fegato d’oca alle pere e pepe rosa. Naturalmente il Trigabolo non sarà solo cacciagione. Fanno storia anche alcuni primi come i garganelli piccanti in salsa d’aglio; le crespelle allo Stilton e pistacchi; i tagliolini ai pesci dell’Adriatico e crema di prezzemolo; la zuppa di pesci allo zafferano; lo zabaione di sogliola al pepe rosa. Senza scordare i bignè fritti caramellati ideati da Gualandi.

Corelli: “Non si possono servire piatti tiepidi”

A parte la maestria di Corelli e soci, la particolarità di quella cucina era che tutto era cucinato espresso, niente era

Un germano reale. Famoso quello al fegato grasso e coriandolo del Trigabolo. La foto è di Erwin e Peggy Bauer da pixnio.com.

riscaldato o rigenerato; anche le verdure erano tagliate lì per lì e la sfoglina, la signora Gianna, iniziava a tirare la sfoglia col mattarello solo quando arrivava la comanda. Capite bene che, partendo da un retroterra culturale/enogastronomico di questa fatta, oggi Corelli non veda di buon occhio alcune particolarità dell’alta cucina contemporanea. Ad esempio, al quotidiano la Verità ha dichiarato: “Non se ne può più di mangiare piatti tiepidi perché gli chef aspettano mezz’ora prima di servirli perché devono definire “esteticamente” la ricetta”. Per lui si darebbe dunque più importanza alla “bellezza” del piatto piuttosto che alla sua bontà.

“Meno estetica, più sostanza”

E, infatti, dichiara anche in altre interviste: “C’è una rincorsa al piatto estetico e il saper cucinare passa in secondo piano. Questo è pericolosissimo. Primo perché se i cuochi smettono di cucinare non hanno più senso. Poi, imponendo questa moda, si lascia spazio al cibo omologato e si perde l’attenzione a ciò che propone il territorio. Ancora: la grande cucina si è sempre misurata con la selvaggina e ora questa sembra sparita da tutti i menu più importanti. E’ normale? Infine, è evidente che se do ai clienti tanta verdura spendo di meno ma se mi prendo l’encomio di una guida stellata poi posso proporre la stessa verdura anche a prezzi esageratamente alti”.

Non abbandonare la cucina del territorio

Insomma, Igles Corelli, dall’alto della sua esperienza, ci va giù pesante e apre una discussione che sarebbe bello vedere

Foto da pixnio.com.

anche tra i manzoniani “quattro lettori” di questo blog. Da parte nostra, ci limitiamo a osservare che se la cucina italiana in generale e quella di tutte le Regioni dello Stivale viene apprezzata da chi visita il nostro Paese e anche all’estero, non è certo per l’estetica del piatto ma, come scrisse la rivista americana Forbes ormai diversi anni fa parlando delle specialità emiliane: “La differenza la fanno il gusto del cibo; come lo si prepara e gli ingredienti che si usano, tutti legati alla terra nella quale si lavora”. Ecco, la cucina italiana è questo, frutto di secoli di stratificazioni di conoscenze, con piatti che nascono durante l’impero romano o nel medioevo, mutano nel corso dei secoli e delle regioni e vengono reinterpretati, cambiati e migliorati ma sempre con un occhio attento alla tradizione, al territorio, alla sapienza di chi cucinava prima di noi (azdore, cuochi stellati, mamme, nonne… non ha importanza). Questa è la strada che chef come Corelli (o anche come Gianfranco Vissani) ancora perseguono e ci invitano a non abbandonare.