Parlare di birra significa perdersi fra decine e decine di stili diversi di produzione caratterizzati da differenti mix fra colore, sapore, gradazione alcolica, ingredienti, ricette, tipi di lieviti utilizzati, tipi di fermentazione. Un mondo complesso che merita un articolo a parte e che vede poche multinazionali dividersi il mercato mondiale ma tanti piccoli produttori locali (nazionali o, addirittura, territoriali) proporre coraggiosamente i loro prodotti a un pubblico sempre più attento e informato. Del resto, i numeri parlano chiaro: si tratta di un mercato che supera i 180 miliardi di litri e produce entrate per più di 400 miliardi di dollari, perlomeno in tempi pre pandemia.

La Repubblica Ceca è al primo posto nei consumi per persona, con 468 birre in media in un anno, una

Un birrificio del XVI secolo (foto Wikipedia) In copertina foto di Sal Gh dal sito unspalsh.

cifra che equivale a 1,3 birre al giorno. Un primato che non sorprende, visto che fu nella città ceca di Pilsen, nel 1842, che nacque la prima birra “moderna”: chiara, leggermente alcolica, ottenuta con lievito a bassa temperatura. La Spagna, la Germania e la Polonia sono vicine alla Repubblica Ceca nei consumi pro capite con 417, 411 e 398 birre, rispettivamente. Per l’Italia viene indicata la cifra di 126 birre l’anno. I consumi più bassi sono rilevati a Haiti, dove gli abitanti bevono solo circa quattro birre l’anno. Lì si preferisce certamente il Rum.

Perché parliamo di birra “moderna”? Perché questa bevanda era già conosciuta attorno al Settemila avanti cristo, anche se aveva caratteristiche differenti, com’è ovvio, dalla birra che noi conosciamo. Molti storici sostengono che l’invenzione del pane e della birra sia stata responsabile della capacità dell’uomo di sviluppare tecnologie e di diventare sedentario, formando delle civiltà stabili. È verosimile che la diffusione della birra sia, infatti, coeva a quella del pane poiché le materie prime erano le stesse per entrambi i prodotti. Era solo “questione di proporzioni”. Se si metteva più farina che acqua e si lasciava fermentare si otteneva il pane; se invece s’invertivano le quantità mettendo più acqua che farina, dopo la fermentazione si otteneva la birra. Le prime testimonianze della presenza di questa bevanda le abbiamo in Mesopotamia, al tempo dei Sumeri, poco meno di quattromila anni avanti Cristo. Proprio lì sembra sia nata la professione del birraio e pare che parte della retribuzione dei lavoratori fosse corrisposta in birra. Due erano i principali tipi prodotti dei birrai mesopotamici: una birra d’orzo chiamata sikaru (pane liquido) e un’altra di farro detta kurunnu. La più antica legge che regolamenta la produzione e la vendita di birra è nel Codice di Hammurabi (1728-1686 avanti Cristo) che condannava a morte chi non rispettava i criteri di fabbricazione indicati (ad esempio annacquava la birra) e chi apriva un locale di vendita senza autorizzazione. Nella cultura mesopotamica la birra aveva anche un significato religioso: veniva bevuta durante i funerali per celebrare il defunto e offerta alle divinità per propiziarsele.

Più o meno la stessa cosa avveniva nell’antico Egitto. Grazie agli scambi commerciali fra le varie popolazioni del Mediterraneo (grandi protagonisti i Fenici), la birra cominciò a essere conosciuta anche nel resto d’Europa. Prima in Grecia e poi a Roma (dove però si continuava a preferire il vino locale) e poi presso le popolazioni del nord: germani, celti, norreni, eccetera, tra le quali ebbe, invece, un successo clamoroso tanto che la si beveva in boccali e corni impreziositi da oro e gemme. Questo perché, come per i mesopotamici, non era solo una bevanda “da pasto” o da “compagnia” ma anche celebrativa: con essa si ringraziavano gli dei per una vittoria in battaglia o altre elargizioni.

Un vecchio birrificio inglese (CC BY-SA 3.0, httpscommons.wikimedia.orgwindex.phpcurid=239927).

Molti, però, non riconoscerebbero come birra ciò che bevevano i primi abitanti dell’Europa in quanto le prime “bionde” contenevano ancora al loro interno i prodotti da cui proveniva l’amido (frutta, miele, piante, spezie). Il luppolo, come ingrediente, fu menzionato per la prima volta solo nell’822 da un abate carolingio e, di nuovo, nel 1067 dalla badessa Ildegarda di Bingen una monaca benedettina tedesca, dichiarata dottore della Chiesa da Benedetto XVI, la quale scoprì che l’infiorescenza del luppolo svolgeva un’azione antisettica e conservante e scrisse nel suo “Libro delle Creature” che: “Grazie alla sua amarezza, il luppolo blocca la putrefazione delle bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possono conservarsi molto più a lungo”. Fu proprio per merito dei monasteri, durante il Medioevo, che avvenne il salto di qualità nella produzione. Persino le suore avevano tra i loro compiti quello di produrre la birra, che in parte era destinata ai malati e ai pellegrini. E, in Gran Bretagna, la birra prodotta dalle massaie veniva messa a disposizione delle feste parrocchiali ed utilizzata per scopi umanitari.

Il primo birrificio italiano nasce nel 1789 a Nizza (allora terra Sabauda) a opera di Giovanni Baldassarre Ketter. Altri ne nascono ben presto nel vicino Piemonte, la prima regione italiana a produrre birre. Oggi non c’è provincia o città che non abbia uno o più birrifici artigianali di riferimento. Senza fare pubblicità a nessuno: dalla Sicilia alla Sardegna; dalla Romagna al Veneto, tutti possono gustare una fresca birra alla spina o imbottigliata ma comunque prodotta in loco. Chissà se Ildegarda si sarebbe mai immaginata uno sviluppo simile delle sue dotte intuizioni…