Sono convinto che la maggioranza dei lettori di questo piccolo blog non sappia dell’esistenza della mora romagnola. No, non stiamo parlando delle bellissime donne della Romagna dai magnifici capelli corvini (sono sicuro che qualcuno di voi ci abbia pensato…) ma, absit iniuria verbis, di suini. Della mora romagnola, appunto, una delle sole cinque razze autoctone italiane.

Sinceramente, se non la conoscete siete ampiamente giustificati perché questo maiale è stato in pericolo d’estinzione fino a pochi anni fa e ora sta nuovamente ma lentamente crescendo nel numero di esemplari dopo che è stata dichiarato presidio Slow-Food. Proviamo a raccontarne la storia con un po’ d’ordine…

La mora romagnola è una razza di maiali antichissima, un tempo allevata esclusivamente nelle campagne di Ravenna, Forlì e Rimini. I contadini di ognuno di questi territori crescevano una mora di tipo diverso. La “romagnola” del ravennate, chiamata “faentina”, dal mantello rosso chiaro; quella forlivese, la più diffusa e pregiata, nerastra con tinte più chiare sull’addome; infine la riminese, rossastra con una macchia bianca in fronte.

Scrofa di mora romagnola (immagine tratta da “Suinicoltura pratica”, Hoepli, Milano, 1922.

La cute pigmentata in questo modo e le setole lunghe e robuste, sono alcune delle caratteristiche tipiche della mora romagnola. Altre qualità distintive sono: gli occhi neri a mandorla (!); la testa di media grandezza con un muso lungo e sottile; il collo leggermente allungato e stretto così come il tronco; gli arti lunghi e la coda sottile. L’altezza è di circa 80/90 centimetri (le scrofe sono più alte dei verri, cioè dei maschi) e il peso può variare fra i 250 e i 300 chili nella maturità che questa razza raggiunge verso i 18/20 mesi.

Le sue carni sono saporite, compatte ma morbide e piuttosto grasse. Se la mora viene utilizzata per la produzione di salumi di pregio come il culatello o la spalla cruda, dà ottimi risultati. Anche le cotture più tradizionali come gli spiedini, le braciole e gli arrosti ne mettono in evidenza il ricco sapore e il complesso profumo. E’ un suino “rustico”, vigoroso, da allevare all’aperto e questo fornisce un gusto particolarmente intenso alle sue carni.

Queste particolarità, cioè carni piuttosto grasse e sapore forte, non hanno incontrato il gradimento dei consumatori nel corso degli anni. Per di più, rispetto alle razze di suini maggiormente utilizzate (una per tutte, la Large White con la quale la mora è stata ibridata fino a metà degli anni ’50) la romagnola rendeva di meno dal punto di vista produttivo venendo così eliminata dalla produzione industriale. In pratica, alimentata nello stesso modo degli altri maiali, cresceva di meno e occorrevano tempi più lunghi perché se ne potessero fare salsicce e prosciutto. Tutto quello che non serve a una produzione massificata.

Così, secondo i dati forniti dal sito agraria.org, nel 1918 se ne contavano circa 335mila esemplari che, nel 1949 erano già scesi a 22mila e, alla fine degli anni ‘80, a meno di quindici. In pratica, il nostro bel suino locale era estinto. Un solo uomo resisteva e continuava ad allevare la mora a dispetto di tutto e di tutti. Questo “guerriero”, difensore della tradizione romagnola, si chiama Mario Lazzari ed è un allevatore faentino. Nei primi anni ’80 Lazzari va coraggiosamente alla ricerca degli ultimi esemplari di mora che i più danno ormai per estinta. Quasi miracolosamente, girando in lungo e in largo per la Romagna, riesce a racimolarne dodici, tra i quali tre scrofe e un verro. Si trattava degli ultimi esemplari puri ancora esistenti. Da quel momento inizia ad allevarli e a cercare di far sopravvivere questa razza.

Negli anni ’90 vanno in suo aiuto il WWF Italia e l’Università di Torino che studiano un piano di recupero della razza riuscendo a farne aumentare il numero oltre i 450 capi. L’area di allevamento così si allarga e giunge a coinvolgere anche altre regioni. Oggi la mora si può trovare in Romagna ma anche in Friuli Venezia Giulia, in Piemonte, Lombardia, Veneto, Campania e Marche. Infine, interviene la Fondazione Slow-Food che ne fa un presidio (per quel che riguarda gli allevamenti romagnoli) riunendo allevatori e trasformatori che utilizzano le carni dei suini cresciuti nelle loro aziende per realizzare salumi tradizionali. “Prodotti che – scrive Slow Food – uniscono all’eccellente qualità organolettica e qualitativa, la sicurezza della filiera produttiva, con una particolare attenzione al benessere animale durante la fase di allevamento”.

Insomma, abbiamo rischiato di perdere per sempre una delle cinque razze autoctone italiane e un mondo di sapori e di gusto. Ma, a volte, nasce un eroe che ci salva tutti.