“Vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio, vota Antonio. Italiani, elettori, inquilini, coinquilini, condomini,  capi piani quando sarete chiamati alle urne compiete il vostro dovere, ricordate un nome solo Antonio La Trippa. Italiano vota Antonio La Trippa. Italiano vota La Trippa”. Così Totò nel film Gli onorevoli  si fa la propaganda elettorale col megafono.  C’è invece che ha preso la cosa sul serio, infatti la trippa ha fatto una fugace apparizione anche nella politica nazionale. A Roma nel secolo scorso un oste di nome Orazio Arzilli fece infatti del quinto quarto (e cioè quel che rimane della bestia vaccina o ovina dopo che sono state vendute ai benestanti le parti pregiate: i due quarti anteriori e i due quarti posteriori) il suo cavallo di battaglia nel candidarsi alle elezioni del 1883 per la Camera dei Deputati. Il suo programma era di stampo mangereccio: “Se veramente volete il vostro benessere, eleggete Orazio Arzilli. Le sue opinioni politiche sono: martedì fagioli con le cotiche, giovedì gnocchi e sabato trippa! Questi saldi convincimenti del nostro candidato sono sempre innaffiati da un prelibato vino di Frascati. Elettori! Orazio Arzilli possiede un ampio e magnifico giardino dove ogni giorno vi attende per esporvi il suo programma politico”. L’aspirante onorevole Arzilli raccolse soltanto settantotto voti, una miseria di preferenze, e quindi non fu eletto. A mio parere avrebbe meritato fortuna e se oggi venisse riproposto sarebbe accolto con attenzione dai cinque e passa milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà. Indipendentemente dalla fortuna elettorale della trippa, siamo di fronte ad un piatto che sta nella profondissima tradizione culinaria di ogni regione italiana, quella più povera che doveva fare i conti con i due quarti posteriori e anteriori venduti ai benestanti e che le restava il quinto quarto che sono  le frattaglie; di queste la trippa è costituita  dalle quattro parti dello stomaco del bovino e l’intestino non c’entra nulla. L’etimologia del nome è incerta come citano i dizionari italiani,  ma c’è chi la fa risalire al francese tripe  o all’inglese  tripe, a sua volta di origine celta tripa,  correlato con il gaelico tarp che significa: mucchio, cumulo. Magari linguisticamente stonerà un po’ ma che bello pensare che sia così e allora… teniamocela. Non ho intenzione di scrivere una ricetta, ma è interessante scavare nella memoria per come si elaborava prima dell’avvento della precotta o peggio di quella sbiancata che si trovano nei supermercati, adatte per la velocità odierna, neanche due ore di cottura. Mi sono cimentato col vecchio metodo. In macelleria si trovava lavata e a volte neanche tanto bene, per cui era necessario una pulizia accurata. Dopo si faceva bollire come precottura  per tre quattro ore prima di aggiungere i condimenti. Ottenuto un soffritto di base nell’olio di oliva extravergine, si passa nella pentola di coccio, si aggiunge la trippa precotta e una scorza di limone, del pepe e un paio di chiodi di garofano, si copre con acqua. Si porta a cottura lentamente, molto lentamente, stando attenti ad aggiungere acqua calda per ultimare la cottura, che diventa giusta quando si schiaccia con le labbra. Si serve non proprio bollente con parmigiano grattugiato. Mi sono cimentato anche col nuovo metodo in pentola di acciaio più fast, ma ho preferito lo slow del coccio, più consono al mio status fisico.

La diffusione di questo cibo è in ogni dove e la considerazione in cui viene tenuta è altissima. In rete c”è una pagina WEB che cita testualmente: “L’Accademia della Trippa vuole essere uno dei principali punti di riferimento per la valorizzazione, la salvaguardia e la promozione della trippa, della sua storia e delle sue ricette. L’Accademia si prefigge di instaurare uno stretto rapporto di collaborazione ed integrazione con altri siti Internet interamente dedicati alla trippa; di adoperarsi per diffondere, in Italia e all’estero, la conoscenza storica della trippa; di valorizzare e promuovere la cultura gastronomica del quinto quarto mediante la diffusione di articoli, ricette e preparazioni a base di trippa”. Scusate se prima abbiamo scherzato con Totò o con l’aspirante deputato Arzilli: qui si fa sul serio!  Sì anche all’estero perché è diffusa in tutto il mondo è un patrimonio dell’umanità. Detto della lingua francese ed inglese, se volete fare un viaggio in Spagna è callos, in Cina se la cavano con du,  in Giappone oltre agli immancabili sushi che ve li portano comunque chiedete di akasen,  negli USA fate i fighi  chiamandola come i Sioux taniga oppure opu pipi come nelle Hawaii, ma in Madagascar diventa uno scioglilingua vorivorinkena.  L’Accademia dà ampio respiro alle italiche cose della trippa,  per esempio ci elenca mese per mese le cento e passa fiere e sagre in onore della trippa in tutta le regioni d’Italia e durante tutto l’anno. Ci riporta i vari nomi dialettali usati per la trippa in generale o specificamente per le quattro parti dello stomaco bovino. Si va dalla busecca lombarda al lampredotto fiorentino servito anche per le strade tra Santa Croce e Orsanmichele come panino fin dall’epoca dei Medici, altro che fast food americano del mec!  Le bombe alimentari le abbiamo inventate in Italia, loro si sono specializzati in altre bombe. Che dire poi del Palio di Buti dedicato alla trippa,  quando il 17 gennaio viene festeggiato Sant’Antonio Abate, il patrono degli animali domestici. E della “Confraternita dla Tripa ‘d Moncalè” in quel di Moncalieri, un’associazione di origine trecentesca di appassionati che promuove e organizza in giro per il mondo eventi sul salame di trippa?

C’è stato perfino un risvolto nella cucina moderna, una rivisitazione delle frattaglie  nei ristoranti stellati, ma c’è di più lo chef tedesco Oliver Glowig propone trippa di baccalà e caviale, il nostro doppia stella  Moreno Cedroni quella di coda di rospo e dalla perfida Albione Gordon Ramsey fa un elogio a questo cibo troppo maltrattato per secoli, una sorta di: “God save the tripe”. Insomma la trippa copre tutto l’arco mangereccio dello scibile umano, da quella bovina della trattoria nazional-popolare fino alla sciccheria snob di quella della coda di rospo. Mo’ stà a ddì che “nun c’è trippa pe’ gatti” me pare superfruo.

Il dulcis in fundo è che sulla pagina dell’Accademia trovate anche le ultime news in merito. Se la meta del vostro viaggio è lo Zimbabwe ricordatevi che si chiama matumbu, ma  fate attenzione, il sito giornalistico Bualwayo 24 News  riporta che il governo dello Zimbabwe ha imposto, a partire da ieri, una tassa del 15% su trippa, frattaglie, pesce, riso, margarina e “maheu” (una popolare bevanda alcolica derivata dalla fermentazione del miglio). Immediate le opposizioni di Obert Gutu, capo della Confcommercio locale, che ha condannato la tassa come “crudele” ed “anti-popolare” poiché mirata a colpire gli alimenti base della popolazione – con la trippa si preparano qui piatti come il “guru” e lo “zvemukati” – accusando il regime di riscuotere questa imposta per pagare lo stile di vita stravagante e dispendioso del presidente Robert Mugabe, uno dei leader più ricchi di tutta l’Africa. Paese che vai, trippa governativa che trovi.