Onorata cristianamente la domenica delle Palme, si parte alla volta di Verona. C’è nell’aria la sensazione di una giornata piacevole: si va verso il vino! Nella Romagna, prima ghibellina poi repubblicana, il vino è detto semplicemente e’ bé, il bere.
I chilometri scorrono con la sobria guida di Fernando, mentre Gianna sbriga le telefonate della mattina. Tra una chiacchiera e l’altra si arriva al gioco del calcio e mi viene in mente la “fatal Verona” del ’73 per il popolo milanista: era il Milan di Rocco el paron e di Rivera, l’abatino come lo nominò Gianni Brera. Ci abbiamo anche uno di questi nella comitiva, Riccardo che stuzzicato su quella tragica domenica milanista non fa una piega. Mi risponde seraficamente: “Questo è l’esempio più evidente del milanismo (sic et simpliciter). Il Milan vince ma sa perdere per lasciare vincere anche gli altri, ma quando perde lo fa malamente. Il milanismo non si spiega, è come la febbre dell’oro. Per farne parte è necessario il battesimo di questa febbre, un brio interiore  ma non per tutti. Dico: “Tra tutti gli ismi funesti dell’ultimo secolo ha vinto” e mi risponde senza dubbio alcuno: “Sì e ci sarà una battaglia finale con l’islamismo dal risultato scontato Milanismo  Islamismo infinito a zero”. Il suo modo di parlare così solenne e faceto mi dà l’idea di una sorta di filosofia di vita da tifoso che può essere traslata nella comune giornata.
Nei pressi di Modena si va alla meccanica, in particolare quella dei motori, e ci perdiamo tra i nomi che hanno fatto  la storia delle auto: Ferrari, Maserati, Lamborghini con qualche cenno a De Tomaso per simpatia acquisita; e come dimenticare le due ruote così care a noi romagnoli: Ducati, Morini, Malaguti, Mondial e via dicendo verso la nobiltà lombarda di  MV Agusta, Gilera, Aermacchi, e la Benelli?  Non si finirebbe più tra motori monocilindrici, pluricilindrici e olio di ricino bruciato.
Così tra lazzi e sollazzi arriviamo a destinazione e ci fiondiamo dentro il padiglione dell’Emilia – Romagna, forti dell’invito della cantina Ottaviani, fondata dal nonno Enio in quel di San Clemente nel riminese, là sui contrafforti della Val Conca. Il messaggio che ci porta Massimo, il globetrotter della cantina, è : “Vogliamo abbinare il vino, la sua produzione con la storia e le vicende della terra da cui nasce e farne un corpo unico”. Sembrano parole intuitive ma non lo sono. Dietro la nostra conoscenza, mista ad un po’ di arroganza, abbiamo forgiato l’idea che la terra ci appartenga e che  sia una cosa diversa da noi persone, una cosa inanimata da sfruttare per i nostri fini. La stessa idea ci viene ribadita da Ofelia, la storyteller del gruppo. L’accoglienza è di quella romagnola e ci sentiamo a casa. Si parte con l’assaggio di “Clemente I” un sapiente composto di pagadebit, sauvignon e riesling. I mille gusti che sprigiona lo fanno settimo classificato come “vino Pop” del 2017, quella speciale classifica, stilata da una giuria capitanata dal sommelier Luca Gardini,  dei  cinquanta vini scelti e pervenuti da duecento cantine. I requisiti richiesti per la gara sono la qualità e il prezzo fino i 15 € alla bottiglia.  Per ovvie ragioni non fanno parte del gruppo i fuoriclasse come picolit,  amarone, brunello e barolo sia  per invecchiamento, meticolosità della lavorazione che per la bassa resa quantitativa. Il bellissimo  risultato di Clemente I ci viene confermato immediatamente dal palato che manteniamo in allenamento con una portata  di pregevoli salumi,  corona alle finali tagliatelle al sugo vaganti tra sapori di mare e di terra. E qui ci accoglie l’immancabile inventiva di Riccardo a cui il sugo ha rievocato le sue battaglie in mare: “Come l’appetito vien mangiando, così il remare vien vogando”. Il fervido “massimalista” più efficace dopo il Massimo Catalano di arboriana memoria. Ci fanno da compagnia per i salumi  l’allegro  sangiovese “Caciara”, vincitore della edizione 2016; è ovvio l’avvezzo a stare in testa al gruppo di questi  ragazzi. Per le tagliatelle ci viene servito il  Superiore, obbligata la esse maiuscola, “Sole Rosso Riserva 2013”, una degna corona di tanto piatto.
Al tavolo a fianco ci sono quattro ospiti giapponesi, ragazzi in degustazione. I loro occhi e i loro volti non danno nessun dubbio circa il gusto che provano ad addentare le tagliatelle. Mi paragono alla settimana che passai a Tokyo, in occasione di una fiera internazionale, a mangiare tutti i giorni “sushi e tempura” accompagnati da alghe verdi o rosse in filamenti conditi con salsa di soia. Dopo un paio di giorni di sciatteria cibaria ho provato altri ristoranti, dal tailandese, all’indiano, al cingalese; erano  accomunati da una roba  che non ho mai capito: tutti i cibi serviti “sentivano” di pesce crudo.  Una lesione morale dalla quale non mi sono mai ripreso.  Beh, la mia faccia di allora non era per nulla paragonabile alla loro che sto osservando! Messo piede a Fiumicino mi  abbandonai alla prima cosa intuitiva  da fare: mangiare un piatto di spaghetti pur che sia. Mi riconfortai ulteriormente dal triste episodio quando lessi di una citazione tratta da Libro d’ombra di Jun’ichirō Tanizaki: La cucina giapponese non è qualcosa che si mangia, ma qualcosa che si guarda.
Ritornato a Verona, ci lasciamo con l’immancabile invito di Massimo e della mamma  per una visita in cantina alla quale daremo certamente onore.
Una capatina presso i cugini emiliani è d’obbligo e puntiamo, a pelle, su uno stand governato da bella ragazza che ci consiglia il Monovitigno di Lambrusco Grasparossa della Fattoria Moretto di Castelvetro: ottima scelta.
Fernando, lasciatosi trasportare dalle bollicine emiliane, giunge alle soglie di Franciacorta con tappa imprescindibile al padiglione della Lombardia. Ci accoglie il suono ritmato di un pianoforte sulle note di These boots are made for walking  un hit dei ’60 di Nancy Sinatra,  il clima è posato e quasi augusto rispetto al fermento del sangiovese o al frizzante del lambrusco. Ci sono spazi più larghi e più formalità nei contatti, ma regna un senso di organizzato e di preordinato fuori dal comune.
Soddisfatti i palati  abbiamo davanti un ultima tappa presso il padiglione della Sicilia. Gianna ha in mente dalla mattina Donna fugata e resta in attesa della lunga fila. Noi ci defiliamo e ci  accontentiamo di assaggi indovinati di grillo e di marsala a vicini stand. Cerchiamo una sedia, rara avis in questa fiera, e finalmente adocchiamo uno stand vuoto di sole sedie della Regione Sicilia. Ci sediamo  soddisfatti della conquista, ma urtiamo contro la sensibilità di un ringhioso funzionario, che appena arrivato, ci apostrofa per esserci impossessati delle sue sedicenti sedie. L’accoglienza è disgustosa, sappiamo di non essere graditi ma capiamo, a pelle, di aver di fronte un soggetto non pari alla nobiltà siciliana di Don Fabrizio, il principe di Salina de Il Gattopardo. Lasciamo poco dopo con i piedi leggermente riposati.
“Questo non è milanismo, interviene Riccardo, come era di là in Romagna!”
Una giornata partita col piacevole e trasformatasi via via in straordinaria per le persone incontrate e la loro espressioni di sapienza enologica che si traduce in sapienza tout court, miseramente assente in quel grigio funzionario.