Giuseppe Gioachino Belli è stato un poeta romano dell’Ottocento. Nei suoi 2279 Sonetti composti in vernacolo romanesco raccolse la voce del popolo della Roma dell’epoca. Satira feroce della teocrazia romana vista dagli occhi della gente plebea con cinismo e sarcasmo da vendere, dissacrante e niente politically correct. Non poteva essere diversamente, il volgo si incontrava nelle osterie dove il vino andava a fiumi, si giocava a morra col coltello bene in vista pronto a luccicare, non se le mandavano a dire: Alberto Sordi ne è un perfetto esempio ne “Il Marchese del Grillo”.
Scritti clandestinamente e destinati al rogo dallo stesso Belli, per i contenuti troppo anticonformisti e scabrosi, vennero pubblicati parzialmente dopo la sua morte e solo interamente nel 1952. La testimonianza del Belli, osservatore molto attento degli usi della gente comune e del popolo più abbiente dell’Ottocento è molto preziosa per presentarci uno spaccato di vita dove il cibo gioca un ruolo fondamentale per inquadrare la satira anticlericale che vuole i prelati di rango ma anche i preti insaziabili crapuloni. La figura del grasso religioso indolente, ingordo e schiavo del ventre è entrata nell’iconografia letteraria italiana fin dall’alto Medio Evo, si pensi solo alle figure tipiche di preti e frati nel Boccaccio. Nella cucina dei conventi era d’uso avere il torchio per fare la pasta (torculum pro formandis macaronis). Fra’ Salimbene da Parma nella Cronaca duecentesca parla di frate Giovanni da Ravenna, di cui non si era visto l’eguale in quanto al gusto con cui divorava lasagne al formaggio. Sono molti i sonetti del Belli che riprendono questa icona o meglio di chi mangia a crepapelle come i chierici in contrapposizione a quelli che stanno a stecchetto come il volgo. Così abbiamo preti che la notte di Natale, tra una salmodia e l’altra, corrono a turno in sacrestia per vedere a che punto è il loro ricco brodo di petti di cappone. Oppure c’è il vicario che “ in tempora o vigilia si sbaglia e confonde il merluzzo con la quaglia, l’aringa, il porco, la vitella e il tonno”. Nello Stato della Chiesa c’era l’usanza di fare una pasta che le massaie chiamavano con ironia strozzapreti. Erano certi rozzi e pesanti cannelli aperti, impastati senza uova, grossi di spessore e lunghi un pollice, difficilmente mangiabili in un sol boccone, che sembravano fatti apposta per le larghe bocche degli uomini in tonaca. Il Belli tesse le lodi di un prete alle prese con questa pasta “…de strozzapreti cotti cor zughillo” nel sonetto “La scampaggnata” più che un pic nic, una propria e vera abbuffata a sbafo dalla famiglia che l’ha invitato. La Roma del Belli che condisce la pasta con solo formaggio grattugiato, pepe e butirro (burro), è ingolosita dal zughillo napoletano per maccheroni che era un sugo di stufato di carne e nel quale erano verosimilmente ripassati in un secondo tempo dopo essere stati bolliti in acqua, piuttosto che cotti col sugo. Quindi se non i popolani, ma i ceti alti sono subito pronti a provare il nuovo condimento, che pretende un arrosto in partenza, pietanza che a quei tempi era davvero per poche tavole. Ecco perché i popolani se li sognano i “maccaroni cor zughillo”. In un altro Sonetto un popolano disperato promette che se avrà la grazia farà vere e proprie pazzie, come dar fuoco alla casa e gustare finalmente due piatti da sempre sognati: una ricca frittata “rognosa”, cioè farcita di prosciutto e guanciale e un piatto di “maccaroni cor zughillo”. E che i maccheroni per i poveri fossero un’utopia, quasi un modo di dire proverbiale, lo prova anche quest’invettiva che fa parte di un altro Sonetto: “quando muori voglio festeggiare con un pasticcio di maccheroni e un triduo a sant’Anna”.
Nella Roma del Belli si producevano paste e maccheroni che nulla avevano da invidiare a quelli di Napoli. Basta dire che sono stati trovati dei prezzari del 1752, quindi ancora compatibile coi Sonetti, che provano la pasta di Roma essere rinomata ed esportata perfino a Napoli. La corporazione dei pastai “Vermicellari” romani era molto più antica di quella napoletana, visto che risaliva al Cinquecento e ai grandi cuochi della Corte pontificia. La pasta era un cibo tipicamente aristocratico e costoso, tant’è vero che in origine si condiva con zucchero e cannella. La tradizione che voleva la pastasciutta dolce del Rinascimento, delle laganae della festa di Etruschi e Romani antichi, oggi sopravvivono a Viterbo e in Umbria come i “maccheroni dolci con le noci”, originalissimo e squisito dolce tipico delle feste natalizie che corrispondono al periodo degli antichi Saturnali romani che iniziavano il 17 dicembre. Richiamavano all’età dell’oro quando regnava Saturno: era consuetudine fare banchetti, scambiarsi doni accompagnati da lettere, accantonare le dispute e liberare simbolicamente gli schiavi. La storia e le usanze si ripetono.
Il sugo di stufato di manzo, di origine napoletana testimoniato dal Belli nel sonetto “La scamapggnata” del 1834, viene a rivoluzionare la pastasciutta, che in precedenza era condita solo con formaggio e/o burro, oppure con zucchero e cannella per gli aristocratici. Da quel momento diverrà più popolare, e pur essendo il sugo di carne alla portata solo di nobili e di piccolo-borghesi ma solo nei giorni festivi, entra nell’immaginario collettivo dei romani, tanto che perfino i popolani ormai si permettono di desiderarlo. Intanto che verrà la salsa di pomodoro, la pasta col sugo di importazione napoletana, entra nei sogni dei popolani romani, non solo come cibo “squisito” ma soprattutto come piatto della festa e si allargherà sul territorio nazionale e diventerà quel simbolo gastronomico che ci rappresenta nel mondo.
Nato a Misano Adriatico (RN) nel 1951, mi sono diplomato come perito chimico industriale nel ’70 e laureato in farmacia nel ’74.
Ho collaborato per 3 anni con le farmacie di Riccione, per essere poi assunto nel settore ospedaliero, settore analisi e trasfusioni di sangue.
Ad oggi, mi occupo di diagnostica per immagini nel settore veterinario.