Nell’Ottocento, la vita dei contadini (braccianti e mezzadri) della pianura e delle prime colline romagnole è molto dura. Il ciclo della vita agricola, immutabile nei secoli, lascia le popolazioni delle campagne sempre allo stesso destino: nasci contadino, impari il mestiere, diventi contadino e cresci figli contadini. Non c’è ascensore sociale. L’isolamento sociale e culturale è la caratteristica delle comunità rurali di allora. Prima dell’unità d’Italia, dunque sotto lo Stato Pontificio, esistono addirittura regolamenti locali che vietano a chi vive in campagna di scendere in città se non per fiere e mercati. L’isolamento (che finisce però per rinsaldare i sentimenti di aiuto reciproco) è dunque voluto.

Tuttavia, c’è chi sta ancora peggio dei contadini di pianura e collina: gli abitanti dell’Appennino. Si tratta di persone che hanno gli stessi problemi dei

Un bosco di castagni dell’Appennino romagnolo

“colleghi” di pianura ma che vivono in un ambiente poverissimo, non adatto alle coltivazioni bensì ricco di boschi e foreste. Nell’Ottocento, in Romagna, il numero delle persone che abita sull’Appennino è almeno pari a quello di chi vive in campagna, a ridosso delle città. Sono talmente tanti, questi piccolissimi proprietari, “contadini di montagna”, che si rendono protagonisti anche di forti disboscamenti di terreni fino a quel momento coperti da selve secolari. Naturalmente lo fanno per una ragione: cercano di creare più terreni coltivabili per sé e per il sostentamento delle famiglie.

Si tratta di una scelta sbagliata. La resa di quei terreni strappati agli alberi non può di certo competere con i grassi e più soleggiati terreni in pianura. Tuttavia, con la miseria che attanaglia tutti, il guadagno immediato che arriva dalla vendita degli alberi abbattuti e l’ipotesi di avere un terreno in più da coltivare, spingono verso un disboscamento veloce. In alcune zone, a dir la verità, è la nascente “civiltà industriale”, a dare il colpo di grazia ad alcuni appezzamenti boschivi. Infatti, la nascente industria ferroviaria (la ferrovia Napoli – Portici, la prima in Italia, è del 1839) abbisogna di legno per le traversine.

Da quel punto in poi, arrivare al dissesto idrogeologico è un passo breve. Frane, “fiumane” e alluvioni s’intensificano mettendo in difficoltà anche chi vive in pianura e quelle alluvioni le deve subire. E’ in quel periodo storico che incomincia a parlare di “prevenzione”. Se pensate al punto in cui siamo oggi, non si può dire siano stati fatti molti passi in avanti…

La povertà ai limiti della sussistenza delle comunità che vivono la montagna appenninica romagnola si riflette anche sulla cucina di quei territori dove la castagna diventa il principale cibo di sostentamento. Ecco allora il pane di castagne, la polenta dolce e un dolce come il castagnaccio del quale forniremo una ricetta.

Castagna

Ma perché diviene il principale cibo contro la fame per le popolazioni montane della Romagna più di altri frutti o alimenti? Perché ha un alto valore energetico: 165 Kcal per 100 gr di prodotto. Il che significa che per battere la fatica, sentirsi sazi riempiendo uno stomaco troppo spesso vuoto, è il cibo ideale. Infatti, un frutto contiene l’84% di carboidrati, il 9% di lipidi e il 7% di proteine. Cento grammi di castagne forniscono 395 mg di potassio, 81 mg di fosforo (ottimo per aiutare il sistema nervoso), 30 mg di calcio e 0,9 mg di ferro. Le castagne sono una fonte importante di sali minerali preziosi per la salute e contengono fibre utili per l’attività intestinale. Hanno anche un altro pregio per i “montanari” dell’epoca: sono facilmente conservabili per diverse settimane, basta tenerle in un lungo fresco e asciutto, sia che le si conservi al naturale, sia che prima le si sbucci e le si tenga a bagno per qualche giorno.

Delle castagne, va detto che le varietà presenti in Italia sono circa trecento e bisogna distinguere fra castagna e marrone. La prima è il frutto del castagno selvaggio e ogni riccio contiene tre frutti. Il secondo, invece, proviene da alberi coltivati e sempre migliorati con successivi innesti e ogni riccio contiene normalmente un solo frutto. Il marrone, rispetto alle castagne, ha un sapore più dolce e più profumato, è più grande e, sotto la buccia, è protetto da una sottile pellicina che può essere tolta molto facilmente. Il miglior periodo per “andare a castagne” è proprio questo, diciamo dalla fine di settembre fino ai primi di dicembre.

Con le castagne, si prepara un dolce che si chiama “castagnaccio”. A dir la verità, il nome e la ricetta cambiano, a seconda del luogo di preparazione.

Un ambulante vende il castagnaccio durante una fiera.

In Lunigiana è una torta molto sottile chiamata patòna; in alcune zone dell’Appennino toscano è la torta di neccio; in Romagna è castagnaccio; in altri luoghi si chiama toppone, migliaccio, castignà… Sta di fatto che dopo anni in cui questo dolce povero della cucina appenninica era stato abbandonato, oggi è stato riscoperto, è tornato sulle tavole e gli si dedicano anche sagre e feste. Alcune Regioni (Toscana, Emilia-Romagna, Lazio, Liguria, Piemonte) l’hanno riconosciuto tra i prodotti agroalimentari tradizionali. Noi vi proponiamo una ricetta dell’Appennino romagnolo.

Ingredienti per una teglia media

Un chilo di farina di castagne, acqua, sale, pinoli sgusciati o noci, rosmarino, strutto o olio.

Preparazione

In una terrina impastate la farina di castagne con acqua e un pizzico di sale aggiungendo una manciata di pinoli sgusciati o noci sminuzzate, in modo da ottenere una pastella non tanto densa che coli come il miele.

Versate il tutto in una teglia media, precedentemente unta con strutto o olio o burro, in modo che lo spessore del composto nella teglia abbia uno spessore di circa due centimetri. Guarnite la superficie con pinoli o noci, qualche ago di rosmarino e una croce d’olio. Cuocete il tutto in forno a circa 150 gradi fino a quando la superficie diventa color cioccolato e incomincia a screpolarsi. Si può controllare la consistenza affondando la lama di un coltello che ne deve uscire pulito. Lasciate che si raffreddi un poco prima di tagliarlo in quadrotti e servirlo.