Nell’ultimo decennio, le televisioni italiane (Rai e private), hanno dato il via a decine e decine di programmi dedicati alla cucina, al cibo, alla gastronomia, al vino, alla produzione agricola. Non si tratta di un unicum riguardante il nostro Paese. In Francia, nostra diretta concorrente in tanti settori gastronomici, ad esempio, vanno o sono andate in onda trasmissioni come “Les Escapades de Petitrenaud”, dedicato all’enogastronomia dei territori; “Le Carnets de Julie”, sulla cucina delle famiglie francesi, nonché i vari format che s’inseguono più o meno uguali per il mondo: “Top Chef”, “Le Meilleur Patissier”, “Cauchemar en Cuisine” (da noi in Italia, “Cucine da Incubo”), e così via…

Luigi Veronelli

In Italia, si può parlare di sovrabbondanza di produzione mentre per anni, l’antesignano di tutti questi format, “Linea Verde”, faceva timidamente capolino la domenica mattina su Rai Uno, tutto solo, quale unico erede di una serie di programmi dedicati, in origine, esclusivamente all’agricoltura e iniziati negli anni ’50 del secolo scorso: La Tv degli agricoltori”, “A come Agricoltura” e “Agricoltura domani”. Va senz’altro ricordato che tra gli anni ’50 e gli anni ’80, una figura di riferimento per l’enogastronomia italiana (in Tv e sulla carta stampata) è stata Luigi Veronelli, un uomo che mescolava con una certa anarchia (e politicamente anarchico lo era davvero!), la filosofia (era stato assistente alla cattedra di filosofia teoretica alla Statale di Milano); profonde conoscenze enogastronomiche; una passione per la tutela del cibo proveniente dal territorio e verso i piccoli produttori che lo portava a scontrarsi con veemenza con le grandi multinazionali dell’alimentazione, sia italiane che estere.

Questo ampio preambolo sulla Tv (avrei potuto parlare di libri e riviste specializzate ma la Tv ha la capacità di entrare in casa di tutti e di rendere più popolari alcuni temi) mi è servito per far capire a voi pazienti lettori di questo blog che la domanda insita nel titolo di quest’articolo è puramente retorica. “Il cibo è cultura?”. Risposta inequivocabile: “Sì”. L’attenzione che gli si dedica, al netto delle esagerazioni e del “gigionismo” di alcuni chef o pasticceri televisivi, è dovuto proprio al fatto che “mangiare”, per ognuno di noi, non equivale ad aprire una scatoletta e rovesciarne il contenuto sulla tavola ma significa, invece, condividere una piacevole abitudine con altri (socialità); cucinare secondo gli insegnamenti delle nostre mamme e delle nostre nonne (cultura che si tramanda); riconoscere i prodotti della propria terra e utilizzarli, con sapienza, creando ricette che solo in quel momento e in quel luogo hanno un senso (uso del territorio e della stagionalità). In altre parole, il cibo non è solo nutrimento: è gusto da assaporare, tradizione da vivere e può essere rappresentativo di una società. Quindi è cultura.

Eppure, nonostante gli sforzi di tanti (singoli, enti pubblici, aziende), appare evidente che ai giorni nostri il modo di consumare e vedere il cibo è cambiato, e così anche la concezione che abbiamo di questo. Ci sono un forte impoverimento culturale, la perdita delle tradizioni culinarie e alimentari, l’aumento delle patologie correlate a un’alimentazione scorretta… Tutte situazioni che hanno creato una specie di rottura nel rapporto tra uomo e cibo, uno squilibrio che siamo chiamati a correggere. Come? Riscoprendo, come detto, l’importanza delle materie prime, della stagionalità, dei prodotti tipici, della socialità nel consumo.

Alcune iniziative vanno in questo senso. Forse non tutti sanno che L’Unesco, ad esempio, per rimarcare l’importanza del cibo come patrimonio culturale, ha inserito nella lista del patrimonio immateriale dell’umanità la Dieta Mediterranea, intesa non solo come insieme di ricette e alimenti, ma anche come “competenze, conoscenze, pratiche e tradizioni che vanno dal paesaggio alla tavola, includendo le colture, la raccolta, la pesca, la conservazione, la trasformazione, la preparazione…”. Occorre fare tesoro di spunti preziosi come questo e non cedere alla cultura “industriale” del cibo che genera omologazione. Piuttosto, si deve “reagire” e proporre qualcosa che renda unico ciò che mettiamo sotto i denti. Che senso ha che tutti i bambini del mondo sviluppato mangiano gli stessi snack al cioccolato, non importa dove questi siano stati prodotti. Perché la merenda di un bambino siciliano deve essere uguale a quella di un pari età norvegese? Non ha più senso che il primo mangi una fetta di pane con l’olio e un frutto e il secondo una fetta di pane con lo sgombro? Ovvero: materie prime, stagionalità, territorialità. Ancora loro. E sempre cultura.

E noi, più adulti, potremmo anche divertirci a cercare la storia di quel che mangiamo e beviamo. Porci domande: “Perché, se visito la Romagna, è bene che mi gusti una piadina con sardoncini accompagnata da un bicchiere di Trebbiano secco? Che storia ha la piada? Da dove nasce quest’accostamento? Che differenza c’è tra un Trebbiano di Romagna e un Trebbiano d’Abruzzo? Perché questo vitigno è così presente in questa Regione?”. Ancora, appunto, cultura.

In conclusione vorrei dire che rispettare e praticare la cultura culinaria tradizionale del proprio territorio non vuol dire rimanere fermi, non sperimentare o non progredire, anzi: recuperare le nostre radici a partire dal cibo, significa semplicemente riscoprire l’importanza del poter fare quello che si sa con quello che si ha, creando ricette e accostamenti nuovi e producendo, ça va sans dire, cultura!