La saba (o sapa come viene più correttamente detta in romagnolo) e il savor: una sorta di sciroppo d’uva, la prima, e una marmellata, il secondo. Due antichissimi sapori romagnoli che un tempo erano patrimonio delle famiglie contadine e oggi sopravvivono solo nella produzione artigianale di alcune aziende locali. Sono due prodotti tipici di questo periodo dell’anno, destinati a essere consumati in inverno e che facevano la gioia dei bambini del tempo che fu.

La sapa romagnola.

Le origini della sapa sono molto antiche. Dobbiamo tornare all’epoca dei romani (del resto, la parola sapa viene dal termine latino sàpor, che significa sapore, gusto o aroma). Il primo riferimento storico lo troviamo negli scritti di Plinio il Giovane, avvocato, scrittore e magistrato romano, nipote del più famoso Plinio il Vecchio (che era il fratello della madre). Del primo, sono giunte fino a noi due opere: il Panegirico di Traiano e un Epistolario in dieci libri. In una delle lettere raccolte nell’Epistolario, racconta di come diversi anni prima fosse stato servito all’imperatore Augusto, il quale stava visitando la Gallia Cisalpina dalle parti del Rubicone, una sorta di sugo di vino che “condiva” dei dolcetti e che gli risultò graditissimo. Il fatto che Augusto (nato nel 27 avanti Cristo e morto nel 14 dopo Cristo), potesse gustare la sapa, significa che quel cibo, preparato in quel modo, doveva essere conosciuto perlomeno da diversi decenni in quella che è oggi la Romagna.

Della sapa parla per diretta conoscenza anche Ludovico Ariosto (1474/1533). Scrive il grande poeta reggiano in un passo della terza delle sue Satire, indirizzata al cugino Annibale Malaguzzi:

Chi brama onor di sprone o di capello,

serva re, duca, cardinale o papa;

io no, che poco curo questo e quello.

 

In casa mia mi sa meglio una rapa

ch’io cuoca, e cotta s’un stecco me inforco

e mondo, e spargo poi di acetto e sapa,

Ludovico Ariosto ritratto da Tiziano in un olio su tela che si trova al Museo delle Arti di Indianapolis.

In pratica, Ariosto dice che, se dipendesse da lui, farebbe a meno di viver alla corte (di Alfonso d’Este) e si accontenterebbe di mangiare rape cotte su uno spiedo e condite con aceto e sapa. La vita da cortigiano non doveva andargli molto a genio, evidentemente. Ma quel che a noi più importa, è che abbiamo un indizio di come la sapa era utilizzata come condimento in quel periodo storico. E poteva non trattare l’argomento il nostro amico Pellegrino Artusi? Certo che no. E, infatti, nell’ormai da noi citatissimo “La Scienza in Cucina e l’Arte di Mangiar Bene” del 1895, scrive: “La sapa, ch’altro non è se non un sciroppo d’uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. È poi sempre gradita ai bambini che nell’inverno, con essa e colla neve di fresco caduta, possono improvvisar dei sorbetti”.

Ma come si prepara questa sapa? Si parte dal mosto d’uva che può essere derivato sia da uve bianche, sia da uve nere ma non deve avere ancora iniziato la fermentazione. Questo mosto va sistemato in un caldaio (o paiolo) in rame, assieme a sei noci intere (cioè non sgusciate), e va fatto bollire a fuoco lento per circa otto ore. La schiuma che si formerà in superficie andrà tirata via utilizzando un cucchiaio di legno. Quando la sapa sarà ridotta di circa due terzi rispetto alla quantità iniziale e si sarà raffreddata, sarà pronta per essere messa a maturazione (per sei mesi). Tradizionalmente, si utilizzavano a questo scopo dei contenitori in legno con l’apertura coperta da un pezzo di stoffa. Oggi, chi ancora esegue questo “rito culinario”, utilizza dei più moderni barattoli o bottiglie di vetro a chiusura ermetica. Dopo un semestre di maturazione, avremo un gustoso condimento per bolliti, per il romagnolissimo “formaggio di fossa”, per verdure lesse o grigliate. La sapa può essere anche un ingrediente per dolci e per mostarde e confetture, come il savor…

Il savor.

E, in effetti, il savor è un diretto derivato della sapa. Per prepararlo si parte, cioè, dal mosto di uva bianca o nera che viene messo a bollire e a ridurre a fuoco lento per circa otto ore. Nel frattempo, si devono preparare dei pezzi di frutta che saranno aggiunti al mosto: pesche, albicocche, mele cotogne e pere volpine tagliate a piccoli spicchi. Poi, fichi secchi; noci; pinoli; uva passa; nocciole; mandorle sbucciate. Infine, bucce di arancia, di limone, di melone (o di cocomero) tagliate a cubetti. La frutta fresca deve essere circa la metà della frutta totale, mentre l’altra metà dei frutti secchi deve essere in parti più o meno uguali. Si rovescia il tutto nel “paiolo” del mosto e si fa bollire per altre 5/6 ore, mescolando delicatamente ogni tanto. A cottura ultimata, si lascia riposare per una notte prima di riporre il savor in vasi di vetro a chiusura ermetica, lasciandolo “riposare” per almeno un mese prima di essere utilizzato. Il savor può essere un fantastico ripieno per dolci fatti in casa come la crostata oppure i “tortelli”. Lo si può spalmare su una fetta di pane per una merenda ricca d’energia. Infine, i più tradizionalisti, vorranno gustarlo su una piadina calda, per ritrovare davvero il gusto dei sapori di una volta.