Parlare di alimentazione per noi romagnoli presuppone che si parli di buona cucina e che per farla occorrono quattro cose: passione, attenzione, precisione e genuinità degli ingredienti. Presuppone anche che si debba

celebrare il rito del cibo e che lo si debba consumare comodamente seduti a tavola. Alimentazione diventa  sinonimo di pranzo o cena. Non è concepibile un buon mangiare  pensato fuori dalla tavola. Il senso conviviale che diamo al cibo fa parte del nostro modo di essere e spesso si  manifesta in lunghe tavolate in onore dei nostri ospiti. La letteratura romagnola sul cibo e sulle tradizioni derivate è ben rappresentata. Come dimenticare “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi da Forlimpopoli che Ave Ninchi, nella prefazione di una  edizione degli anni ’70, chiama “il vero  Maestro di tutti i Maestri”, come dimenticare le celebrazioni di Giovanni Pascoli e di Aldo Spallicci al cibo simbolo della nostra terra: la piada. Ancora negli anni ’60 il  poeta di Bertinoro Aldo Spallicci, fondatore e direttore della rivista di folklore romagnolo “La Piè”,  in una delle sue poesie dialettali celebrava rigorosamente la battaglia che si scatena a tavola coi coltelli e le forchette:

Gardel ch’al s-cioca

nebia in cusena

arost d’Sampir

sora  la tvaja:

sota curtell

sota furzena

la gran bataja

ch’la si scadena.

Graticole  che sfriggono

nebbia in cucina

arrosto di pesce Sampietro

sopra la tovaglia:

fatevi sotto coltelli

fatevi sotto forchette

per la gran battaglia

che si scatena.

Fermo restando la passione per la celebrazione del combattimento nei confronti del cibo, mi pare che il poeta  ci trasmetta una figura ormai desueta, appartenente a quel periodo storico dove si sentivano ancora i cori della fame  patiti  negli anni terribili vissuti dai nostri genitori tra le due guerre e fino ancora negli anni ’50. Ne viene fuori una sorta di vendetta verso  i famigerati morsi della fame mai dimenticata ed ora  esorcizzata ed espletata con infinite portate innaffiate da abbondanti libagioni. Ci stiamo lentamente distaccando da questo modello per una serie di ragioni, non solo legate  al cibo, ma soprattutto di origine  socio economica legate all’appartenenza del mondo attuale che mantiene molto della tradizione di quello descritto dal poeta Spallicci, ma ggiungendo nuove valenze. Perciò rimane il gusto della convivialità, ma si ritorna alla ricerca del cibo genuino, si perde il valore delle tavole largamente imbandite per lasciare spazio a una tavola di  pochi piatti ma di elevata cucina. Una vera rivoluzione culturale che tiene conto di un’alimentazione priva degli eccessi della quantita a favore della qualità del cibo e del buon gusto del servizio offerto.

Per restare legato alla tradizione  romagnola più forte  porterò alcune note  sui cibi che rappresentano la romagnolità all’uso della zona di Riccione.